Questo volume profila approcci bioeducativi[1] allo studio dello sviluppo della mente nell’epigenesi. Le scienze bioeducative (Frauenfelder, Santoianni, 2002, 2003) studiano le complesse relazioni tra individuo, sistema adattivo e conoscenza, mostrando come questi aspetti possano essere interdipendenti. Tali relazioni correlano gli studi sul cervello, il corpo e l’ambiente agli studi sullo sviluppo della mente e sulla sua educazione e formazione.
Le attuali teorie interpretano lo sviluppo come un processo regolato da relazioni dinamiche tra variabili interrelate che investono campi disciplinari differenti e considerano le tradizionali dicotomie nature/nurture – natura/educazione, individuo/ambiente, biologia/cultura – in modi sempre più complessi e flessibili. Lo sviluppo è infatti la risultante dinamica di relazioni organizzative tra più elementi, siano essi fattori singoli o situazioni complesse; il senso orientativo di un processo di sviluppo va cercato nelle strutture e nelle funzioni di relazione tra le componenti di un processo più che nelle stesse componenti che lo caratterizzano.
Per la ricerca educativa e formativa approfondire oggi il concetto di sviluppo implica una reinterpretazione olistica del suo stesso significato; non più soltanto “svolgimento”, “passaggio” dal semplice al complesso, quanto piuttosto un insieme dinamico e multifattoriale di processi attivato da relazioni multiple e interdipendenti tra differenze individuali e variabili contestuali (Magnusson, 1996; Cairns, 1998; Elder, 1998). I processi di interazione non sono predefinibili (Lewontin, 1998; Gottlieb, 2002) e lo sviluppo individuale non può essere considerato solo una forma di attuazione del programma genetico in relazione alle condizioni ambientali che ne permettono l’espressione fenotipica.
Nel volume il carattere interazionista del concetto di sviluppo viene ripreso dalla posizione piagetiana che interpreta come funzionale e reciproca la relazione tra strutture percettive e operatorie. Questa relazione è guidata dal principio piagetiano della ricostruzione, secondo il quale l’attività senso-motoria e le operazioni concrete e formali del pensiero rappresentazionale, che via via si fa sempre più astratto, evolvono influenzandosi a vicenda in un percorso non lineare che tuttavia implica, sia pure in modo stratigrafico, un graduale passaggio – più che altro, una continuità – dalla “percezione” alla “intelligenza”.
Ma si tratta di continuità o di discontinuità? Il riconoscimento dell’interazione reciproca di una molteplicità di livelli organizzativi nello sviluppo non esclude la ricerca di uniformità per cambiamenti strutturali relativamente invarianti nello sviluppo di individui differenti (Santoianni, 2003). La ricerca di caratteri evolutivi tendenzialmente invarianti nello sviluppo può dunque comportare visioni stadiali discontinue, in quanto proprio cambiamenti strutturali uniformi possono produrre cambiamenti bio-comportamentali discontinui.
La ricerca di uniformità non esclude la discontinuità: dire che un sistema si sviluppa in modo stadiale, prospettare ipotesi per la presenza di elementi di continuità biologica tra più individui, come nel modello di Piaget (1967), non significa necessariamente che tale sistema si sviluppi in modo continuo e invariante[2]; anzi, è proprio l’interazione tra le modalità di funzionamento di un sistema in sviluppo, anche relativamente invarianti, e gli specifici contesti in cui si sviluppa, anche relativamente invarianti, a generare discontinuità (Tallandini, Valentini, 1991).
I concetti di discontinuità e invarianza sono stati approfonditi da posizioni di pensiero post-piagetiane (Flavell, Miller, Miller, 1996) che, pur facendo riferimento in alcuni casi a una visione stadiale dello sviluppo ed enfatizzando il ruolo svolto nell’epigenesi da fattori di origine biologica, possibilmente riscontrabili in più individui, ne hanno però evidenziato sia i caratteri di correlazione contestuale e di contingenza e ricorsività spazio-temporale – si pensi, ad esempio, ai cicli ricorrenti di crescita (Dawson, Fischer, 1994; Fischer, Bidell, 1998; Fischer, Rose, 1998) – sia la specificità concettuale e la “sovrapponibilità” del pensiero teorico in periodi diversi di trasformazione evolutiva – si pensi, ad esempio, agli approcci della teoria della teoria (Astington, Harris, Olson, 1988; Wellman, 1990) o del cambiamento concettuale (Carey, 1985, 1991, 2000; Gopnik, Meltzoff, 2000).
E’ possibile quindi fare riferimento a visioni dello sviluppo che studino la generazione di nuove strutture comportamentali come relative e particolari, non valide in senso assoluto eppure sempre generalizzabili; visioni che non escludano la presenza di momenti di discontinuità anche nella continuità delle interazioni tra la matrice genetica individuale e la contingenza contestuale nell’evoluzione adattiva.
Proprio le potenzialità intellettive individuali possono rappresentare un elemento di mediazione tra le continuità funzionali (la complessificazione della conoscenza durante l’evoluzione) e le discontinuità strutturali (le diverse forme che la conoscenza può assumere lungo il corso dell’evoluzione o che si manifestano nella ontogenesi individuale) (Vonèche, 1999).
Nella posizione piagetiana di costruttivismo epistemologico la mente “costruisce” le proprie strutture cognitive nella interpretazione, nella trasformazione e nella riorganizzazione dell’ambiente, che si propone all’individuo con una propria struttura ma che viene, nello stesso tempo, “ricostruito” dall’individuo in una continua attività di mediazione in cui ogni conoscenza è messa in gioco, riveduta e ridefinita in processi che assumono una valenza adattiva.
Nella considerazione piagetiana lo sviluppo è un processo di adattamento, attivo e individualmente promosso, continuo e discontinuo. Un processo la cui presenza costantemente permea di sé l’individuo: anche la conoscenza è, di conseguenza, un processo e non uno stato; un insieme di relazioni, individualmente costruito, tra le possibili forme che essa può assumere e che le si possono attribuire (Di Stefano, 1991). I processi della conoscenza non sono infatti predefinibili (Santoianni, 2006), dipendono dall’esperienza e conservano caratteri evolutivi e adattivi (Borghi, Iachini, 2002).
Allo stesso modo i processi educativi e formativi possono essere eterogenei, discontinui e variabili, anche se hanno luogo in ambienti prestrutturati; è importante essere consapevoli delle variabili implicate in tali processi per comprenderne i vincoli di educabilità e per orientarsi nelle loro dinamiche senza prefissarne le condizioni e i criteri di svolgimento. In questo modo è possibile evitare la compiutezza della progettazione delle interazioni educative e formative – la well formedness oggetto di critica da parte di Bruner (1997).
Filo rosso nel volume è l’idea di relazione, e di correlazione, sistemica tra i vari aspetti che possono concorrere a sviluppare gli apprendimenti. In Bruner (1988, 1992), ciò si evidenzia con una teoria integrata dello sviluppo cognitivo “di tipo adattivo e costruttivo”, che consente di tagliare trasversalmente la linea di continuità tra la percezione e i processi elaborativi superiori. In tal modo la percezione stessa diviene un processo di “categorizzazione, comprensione, identificazione, inferenza, rappresentazione”; un processo che va “oltre lo stimolo”.
Esperienza, interpretazione e conoscenza sono processi intrinsecamente legati e sinergicamente attivabili nei processi di costruzione dei significati. D’altra parte l’interpretazione, nodo epistemico centrale, diviene una esperienza socialmente condivisa: la formazione della mente passa attraverso la condivisione dei significati e l’elaborazione socialmente costruita e culturalmente modellata.
La cultura veicola significati – perché costruire significati implica conoscere, approfondire, esplorare i contesti che li lasciano emergere, li individuano, li definiscono (Bruner, 1996). E i contesti, spesso, sono le “storie” alle quali tali significati sono legati, interconnessi, e nelle quali (attraverso le quali) trovano senso. Il ruolo di una storia, come scrive Bruner, è nella costruzione del suo significato: <<And this leads me to an interesting matter that requires immediate attention: the role of story or narrative in meaning making>> (Bruner, 1996: 97).
È dunque la sinergia che si viene a creare tra l’individuo e la sua esperienza a essere di interesse pedagogico, in quanto tale rapporto si configura come possibile terreno di strutturazioni e ristrutturazioni formative. D’altra parte l’interpretazione bruneriana della conoscenza, per esempio attraverso la narrazione, non è soggetta, necessariamente, a regole di ordine causale e temporale, ma si configura come costruzione e ricostruzione di avvenimenti che segue un ordine proprio, l’ordine che vuole dargli il soggetto che narra: ogni individuo, infatti, apporta il proprio contributo – nei contesti in cui si forma, e nei quali si trova a interagire – in modo irripetibile e contingente, adattivo, situato e incorporato.
Le attuali teorie pedagogiche prendono infatti in considerazione sia la continua, reciproca relazione di interdipendenza bidirezionale tra l’individuo e l’ambiente, sia la natura adattiva, situata – embedded (Seifert, 1999) – e incorporata – embodied (Damasio, 1996) – dei processi di apprendimento.
Il concetto di embodiment come incorporamento sta a indicare la molteplicità di modi attraverso i quali i sistemi adattivi stabiliscono relazioni con l’ambiente. Da questo punto di vista, il concetto di incorporamento si differenzia da quello di situatività (Semin, Smith, 2002). Il concetto di situatività implica l’idea che il mondo fisico possa influenzare il comportamento individuale e le sue attività, quasi come se questi emergessero “di riflesso” dall’ambiente con cui il soggetto interagisce. Alla luce di queste considerazioni conoscere significa interpretare significati e decodificarne la complessità.
Al contrario, il concetto di incorporamento fonda i significati nella fisicità – che non significa, soltanto, essere in uno specifico ambiente e ricevere da esso ma anche agire in quell’ambiente e interagire con esso in modo attivo e interdipendente. Il concetto di embodiment della conoscenza non implica, soltanto, l’idea che l’ambiente possa influire sull’individuo; vi è, piuttosto, sottesa l’idea che il rapporto sia reciproco. I processi di rappresentazione e di comprensione non sono più contestualmente dipendenti ma sistema-dipendenti, ossia dipendono dalle esperienze che ogni individuo compie e mette in relazione con le precedenti esperienze (Riegler, 2002).
Questa interpretazione dell’embodiment ammette una molteplicità di percorsi di “viabilità” della conoscenza. In particolare, le prospettive organismiche delle scienze bioeducative (Santoianni, Sabatano, 2007), di cui questo volume è espressione, mostrano come la mente incarnata e incorporata produce conoscenza e strategie adattive sia da un punto di vista elaborativo, sia da un punto di vista percettivo, e le integra attraverso l’esperienza. Queste prospettive mettono in luce come ogni livello della conoscenza corporea (Diamond, 2002) sia rilevante in senso epistemologico, al di là di una visione ascensionale della conoscenza dai percetti ai concetti (Sabatano, 2004) che ha caratterizzato la scienza cognitiva ancora in tempi recenti (Santoianni, 2003b).
Per quanto riguarda la relazione tra la percezione sensoriale e la cognizione le problematiche classiche sono state recentemente rivisitate alla luce di nuove considerazioni teoriche ed empiriche che hanno contribuito a fare avanzare la ricerca in questo campo sia da un punto di vista neuroscientifico, sia da un punto di vista educativo e formativo. La domanda tradizionale, di origine filosofica, se sia la percezione a influenzare l’elaborazione cognitiva superiore o, viceversa, se sia la percezione stessa a essere influenzata dalla elaborazione cognitiva superiore è oggi riproposta in chiave totalmente diversa.
In primo luogo, questa domanda viene riformulata in prospettiva evolutiva; la questione non è più se la mente sia una tabula rasa, in senso empirista, nel quale la percezione gioca un ruolo primario, oppure se abbia strutture innate, in senso razionalista, che possano orientare e modulare il flusso percettivo. Non ci si chiede più, semplicemente, se la conoscenza sia un fenomeno top down, oppure bottomup.
Il problema è, piuttosto, di scoprire quale potrebbero essere la natura, le qualità e le caratteristiche delle strutture della conoscenza della mente e il loro grado di modificabilità. Ciò riguarda le strutture di livello “basso”, i moduli senso-motori specializzati, le strutture di livello “alto”, i moduli dominio specifici, e le strutture che non sono originariamente modulari, la cui configurazione emerge dalla interazione produttiva con l’ambiente sulla base di predisposizioni localizzate.
Il problema che viene posto è come le strutture della conoscenza della mente evolvano a livello ontogenetico e come interagiscano tra di loro nel costruire la conoscenza. In questo senso, lo studio della reciproca interdipendenza delle strutture della conoscenza sembra essere interessante. In particolare, si analizza la possibilità che alcune forme di interazione dinamica – per esempio, la funzionalità percettiva e l’elaborazione concettuale – siano parzialmente interrelate e possano acquisire una propria specifica identità cognitiva. Ciò sembra essere plausibile sia per quanto riguarda l’elaborazione concettuale, sia per quanto riguarda l’elaborazione percettiva.
Questo cambiamento concettuale ha portato a un ripensamento della correlazione tra elaborazione percettiva e cognizione attraverso una analisi approfondita del carattere “intelligente” della percezione. In questo senso, si è visto come la percezione possa essere predittiva, legata all’azione, specializzata e integrata – in quanto multisensoriale e multimodale – e come contribuisca a formare la conoscenza di sé (Gibson, Eppler, Adolph, 1999). Soprattutto, si è visto come l’elaborazione percettiva possa non essere una premessa alla elaborazione concettuale, si sono scoperte nuove dinamiche nella processualità dell’elaborazione cognitiva e le si sono attribuiti nuovi significati.
La ricerca in ambito educativo e formativo è stata infatti lungamente influenzata dall’idea che la percezione possa svolgere un ruolo di primo piano nella strutturazione dei processi cognitivi di ordine superiore. Per questo motivo, particolare attenzione è stata data alla stimolazione di soggetti in sviluppo attraverso approcci multimodali, specialmente nella prima infanzia.
Si pensi, questo proposito, agli studi della Montessori (1999) sul ruolo dei materiali di apprendimento nei processi di strutturazione della conoscenza. Negli ambienti strutturati seguendo il metodo Montessori, i materiali di apprendimento[3] possono e devono essere gestiti in modo autonomo dai soggetti in un processo di scoperta guidata, attraverso esperienze che possono portare alla generazione di concetti di ordine superiore. In questo senso, gli ambienti di apprendimento dovrebbero essere ricchi di stimolazioni multivariate, per favorire la concettualizzazione attraverso la percezione.
Da questo punto di vista, la conoscenza di ordine superiore è strettamente legata al dominio percettivo e si basa sulla capacità di ogni organismo di apprendere attraverso i dispositivi esperienziali. D’altra parte, nel volume l’Autrice evidenzia come proprio “la centralità che il modello pedagogico montessoriano riconosce al ruolo dell’ambiente nell’apprendimento… fa da apripista ad uno dei discorsi relativo alla costruzione di ambienti di apprendimento adattivi”.
Questi ambienti di apprendimento implicano l’attivazione di scelte individuali adattive rispetto al contesto e reciprocamente influenzate da esso in modo strutturale, all’interno di un percorso che esprime obiettivi evolutivi interni dinamici e condivisi. Gli ambienti di apprendimento adattivi (Santoianni, 2007) sono dunque evolutivi, correlativi e flessibili; sono ambienti nei quali la situatività della relazione di insegnamento e di apprendimento risiede nella non prevedibilità dello svolgersi dei processi di conoscenza, dove il formatore riprogetta continuamente la situazione di apprendimento.
Da un punto di vista educativo e formativo il loro obiettivo è di potenziare l’efficacia trasformativa dei soggetti nei confronti dei contesti, in una sorta di “accoppiamento strutturale” (Riegler, 2002) che prevede rapporti di interdipendenza e di mutua interazione tra individuo e ambiente. Ciò implica reciproco adattamento e promuove aperture alla educabilità: è proprio l’educabilità, in modo singolare, il nodo epistemico che lega il discorso montessoriano ai nuovi territori della ricerca pedagogica, nella circolarità ricorsiva che le è propria – tra ciò che è stato e ciò che sarà – una circolarità che l’Autrice sapientemente mette in luce lungo lo svolgersi dell’intero volume.
Riferimenti bibliografici
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[1] Le scienze bioeducative sono un campo di ricerca che mette in relazione neuroscienze, scienze biologiche e prospettive pedagogiche su focus condivisibili (Frauenfelder, Santoianni, Striano, 2004).
[2] La ricerca nel settore ha tradizionalmente considerato lo sviluppo una sequenza crescente di stadi evolutivi ma, alla fine degli anni ‘70, il dibattito sulla validità dell’ipotesi stadiale come chiave interpretativa dello sviluppo cognitivo del bambino ha maturato dubbi e perplessità sul reale significato degli stadi cognitivi piagetiani (Tallandini, Valentini, 1991). La comunità di ricerca post-piagetiana infatti, pur riconoscendo nella visione stadiale di Piaget (1967, 1972a, 1972b) un ineludibile punto di riferimento per lo studio della complessità dei processi di costruzione della conoscenza durante lo sviluppo, ha tuttavia manifestato perplessità circa la necessaria coincidenza tra i comportamenti individuali che si attivano nelle diverse situazioni di contingenza spazio-temporalmente definite e i comportamenti previsti nella successione stadiale prefissata da Piaget, affermando, di conseguenza, l’impossibilità di rifarsi incondizionatamente al modello piagetiano (Flavell, Miller, Miller, 1996). Le maggiori critiche (Brainerd, 1978), volte a verificare se il modello stadiale piagetiano può essere considerato esplicativo dello sviluppo oppure se esso possiede unicamente un valore descrittivo, sono state quindi rivolte al criterio di sequenza invariante nella successione stadiale – basato sull’ipotesi che i comportamenti associati con esso emergono secondo un ordine indipendente dai fattori ambientali e culturali – e al criterio di strutturazione cognitiva, basato sull’interpretazione che ogni stadio sia dotato di un distinto e organico insieme di strutture cognitive unificate da legami di dipendenza reciproca (Santoianni, 2003).
[3] I materiali a disposizione dei bambini sono progettati per mettere a fuoco l’attenzione – hanno forme geometriche, sono colorati, componibili, … – e ciascuno di essi rappresenta la qualità di un concetto. Ogni bambino ha i materiali di apprendimento a propria disposizione in modo da poterli esaminare percettivamente e da acquisirli attraverso i sensi.
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