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INTRODUZIONE
Flavia Santoianni
In questo studio il tema della memoria – un tema caro a numerosi campi di indagine – viene affrontato da una particolare prospettiva interpretativa, che lo colloca all’intersezione della ricerca in ambito psicopedagogico e bioneuroscientifico, nel più ampio paradigma delle scienze bioeducative. Di questo tema, lo studio in oggetto mette a fuoco un aspetto inedito, la protomemoria, che declina in senso specificamente pedagogico, individuandone le potenzialità, le caratteristiche, i risvolti formativi.
L’interesse pedagogico sul tema della memoria si appunta qui, infatti, sui processi che ne regolano lo sviluppo – o, meglio, sui “protoprocessi” che ne orientano i successivi sviluppi – in relazione alle valenze trasformative dei contesti di formazione.
Uno degli obiettivi di questa ricerca è, dunque, il mettere a fuoco come potrebbe essere strutturata la funzionalità dinamica e interattiva di un ambiente di apprendimento se inteso a promuovere la formazione dei primi processi della memoria, i processi della protomemoria. Quali aspetti potrebbero essere considerati “regolativi” di tali processualità? Quanto si potrebbe supporre che incidano i più recenti aggiornamenti in ambito neuroscientifico su una considerazione/riconsiderazione dei processi di memoria, per regolare la gestione formativa degli stessi?
Le attuali direzioni di ricerca sulle funzionalità del cognitivo, in senso lato – e distinguendo, al suo interno, aspetti più propriamente elaborativi da aspetti che coinvolgono le dimensioni emozionali e corporee, sinergicamente compresenti – tendono, ormai, già dalla fine del secolo scorso, ad allontanarsi dalla matrice computazionale che le ha originariamente generate per avvicinarsi, sempre più, ad una interpretazione della mente – e del cognitivo che le è proprio – come incarnata, situata e distribuita. Una mente che non “risiede” più solo nell’individuo, ma anche negli individui, nei contesti che vivono e che trasformano; una mente che, in se stessa, non è più studiabile separatamente – sia pure per comodità, la scienza cognitiva la ha più volte osservata “in vitro”, per così dire – ma in modo sempre integrato; considerando l’unitarietà dinamica delle sue parti, che la correlano al cervello, al corpo, e la rendono, insieme ad essi, organismo, così come organismica è da considerarsi la sua relazione sinergica e interattiva con l’ambiente, che la include, la comprende e, nello stesso tempo, la specifica e la distingue.
In questo senso, parlare di memoria, oggi, al di là di quello che ha comunque rappresentato e continua a rappresentare la ricerca della scienza cognitiva in proposito, dalle teorie dell’Human Information Processing (HIP) alle teorie dei sistemi di produzione[1], significa anche fare i conti con altre “emergenze” – post-cognitiviste – della ricerca e, in particolare, con l’implicito, con il corporeo, con l’emozionale; con le istanze, spesso re-interpretative, che la ricerca neuroscientifica può indurre se interpellata su questi e altri argomenti.
L’implicito è uno dei temi attualmente più rilevanti negli studi sulle funzionalità cognitive; un tema non del tutto indagato, né del tutto indagabile, perché sono ancora presenti spazi di “non accessibilità” sperimentale della ricerca su questo argomento.
D’altra parte, data l’importanza che riveste da un punto di vista formativo – si pensi che il comportamento individuale può essere influenzato da modalità cognitive non consapevoli, originate da stimolazioni delle quali il soggetto non sempre conosce/riconosce la provenienza e, quindi, in parte non sotto il controllo centrale gerarchico – il tema dell’implicito risulta di particolare interesse sia nel campo dell’apprendimento, sia nel campo della memoria. Con alcune differenze, tuttavia.
Negli studi sull’apprendimento, l’implicito si configura spesso con una valenza di acquisizione non intenzionale, oltre che automatica o automatizzata (di regole astratte, di conoscenze procedurali, di dati oggettivi, di proprietà di relazione, … ); in questo senso, è una delle potenzialità del cognitivo – che può essere resa esplicita, e controllata (si pensi ai numerosi studi sulla metariflessione) e può non esserlo (per questo, va almeno riconosciuta nelle sue potenzialità, se non è possibile trasformarla).
Negli studi sulla memoria, invece – e sulla protomemoria, in particolare – l’implicito sembra assumere una valenza strutturante il cognitivo, nella dimensione mnestica; sembra, cioè, essere la potenzialità operativa del cognitivo e, se è un intrinseco automatismo, piuttosto che una processualità non intenzionale (anche di possibile innesto esterno), ciò non può diminuire l’attenzione formativa nei suoi confronti, in special modo per quanto riguarda la prima infanzia, dove i processi di metariflessione sono molto acerbi, la costruzione di teorie è per lo più ingenua e i soggetti non sono ancora pienamente consapevoli delle proprie funzionalità e dei loro possibili usi (del rapporto tra implicito ed esplicito, per esempio).
E’ interessante, inoltre, come l’implicito sia legato al percettivo. L’apprendimento percettivo (perceptual learning), infatti, è classificabile come una forma di apprendimento implicito responsabile dello sviluppo dei processi elaborativi sensoriali e implicato in una vasta gamma di compiti sensomotori, come le capacità di discriminazione acustiche e visive o il grado di sensibilità somato-sensoriale.
Questo tipo di apprendimento, legato alla ripetitività delle situazioni apprenditive in presenza di stimolazioni reiterate, è stato a lungo considerato dalla ricerca “basilare” rispetto ad apprendimenti più complessi, di livello superiore (high order functions). Uno degli aspetti di più rilevante originalità in questo studio di Claudia Sabatano può essere individuato, invece, proprio nell’avere mostrato – in riferimento agli aggiornamenti delle neuroscienze in questo senso – come questa interpretazione della “processualità” e della “sequenzialità” degli apprendimenti dal basso verso l’alto vada ripensata in funzione di una visione integrata e sinergica delle funzionalità cognitive che riguarda la memoria, così come riguarda l’apprendimento.
Da questo punto di vista, se si può parlare di intelligenza percettuale come di una funzione trasversale rispetto ai diversi livelli della conoscenza (indagativi, elaborativi, interpretativi, …) – e si può confermare una più generale sincronia del cognitivo[2] – allo stesso modo si può ipotizzare che una visione gerarchica della memoria (che parta dall’ambito sensoriale e motorio sino a configurare aree di associazione nelle quali si esplicano le memorie dichiarativa e semantica) sia reinterpretabile alla luce di una considerazione modulare, sì, della memoria, ma nel senso di un taglio “verticale”; per il quale memorie di qualità differente risultano interconnesse tra loro, sia nelle prime fasi della loro formazione, sia nel continuum del loro sviluppo, e non si postulano criteri sequenziali, logici o cronologici, che separino orizzontalmente (nel senso di successivi step) l’attivazione dei diversi tipi di memoria.
Pertanto, sembra possibile avvicinare l’idea di una “trasversalità” dei livelli del pensiero – correlata e correlabile all’attivazione parallela delle reti neurali e alla loro espressione nel sincronismo delle operazioni mentali (le percezioni, la codifica delle percezioni e la loro possibile trasformazione in rappresentazioni mentali, la concomitante utilizzazione di esse come nuove premesse di apprendimento, i processi di attenzione e motivazione messi in gioco, …) – alla ricerca sulla pluralità dei piani funzionali di un sistema cognitivo e, in questo senso, sembra possibile coniugare la considerazione della natura multifattoriale, quantitativamente e qualitativamente distinta, dell’apprendimento, con la corrispondente natura multifattoriale, sinergica e integrata, della memoria.
La memoria, infatti, come la descrive Oliverio, sembra assomigliare di più a un “pezzo di plastilina” che a una “fotografia della realtà”, e come tale è suscettibile di modificarsi, di trasformarsi, di rimodellarsi; di assumere diverse forme, tante quanti sono gli apprendimenti. E queste forme non possono essere considerate dati, codificati e definiti; sono, invece, variabili coinvolte in continui processi di rimaneggiamento, di rielaborazione; variabili che contribuiscono alle successive ricezioni, integrazioni e modifiche delle informazioni in entrata, attivando nessi e relazioni di circolarità tra le informazioni di nuova acquisizione e i contenuti informativi precedenti, da considerare non stabili, ma dinamici.
La memoria, dunque, viene a configurarsi come una funzionalità distribuita, composta da differenti modalità elaborative e inerente a diversi domini neurali, tra i quali rivestono un ruolo specifico particolari sistemi di modulazione che cooperano all’interno di sistemi di elaborazione encefalica più vasti, come il sistema limbico e la neocorteccia. Sistema limbico e neocorteccia[3] sono stati considerati aree cerebrali interagenti, ma non necessariamente interdipendenti; aree cerebrali depositarie, rispettivamente, dei processi emotivi e dei processi cognitivi; aree deputate a differenti livelli di elaborazione.
Questi livelli di elaborazione, tuttavia – seppur distinguibili – sembrano essere profondamente correlati, e vincolati, l’uno all’altro; ed è proprio nelle aree di possibile “collegamento” tra il sistema limbico alla neocorteccia che la ricerca neuroscientifica ha localizzato i nuclei nervosi implicati nei processi di apprendimento e di memoria.
La presenza di aree subcorticali comuni sia al sistema limbico, sia alla neocorteccia, ha mostrato, infatti, sperimentalmente, l’inscindibilità dell’emotivo dal cognitivo, e viceversa. Di conseguenza, come scrive la Sabatano, la loro reciproca interazione collaborativa ha comportato – nelle diverse interpretazioni della mente e della sua relazione con il cervello – sia una “cognitivizzazione del concetto di emozione”, sia una “emozionalizzazione del pensiero”. L’emotivo, dunque, si traduce nel cognitivo, ne è rappresentato e, nello stesso tempo, lo contiene in sé e ne può regolare l’espressione, nel senso che può esercitare su di esso un controllo gerarchico di natura metariflessiva.
L’emotivo, si è visto, nei processi di apprendimento e di memoria si lega al cognitivo e nei processi di protomemoria, in particolare, si lega al percettivo e alle dimensioni organismiche. Queste varabili, considerate insieme, contribuiscono alla definizione dei protoprocessi del cognitivo – i processi di protocodifica e protomemoria. L’interesse della ricerca sui protoprocessi del cognitivo è di natura evolutiva. E’ possibile definire una misura previsionale e un gradiente di educabilità della attività protocognitiva?
In questo senso, le ipotesi sulla misura previsionale dell’attività protocognitiva – portate avanti in questo studio sulle potenzialità delle facoltà mnestiche, in età prescolare – si riallacciano alle ipotesi che si possano qualificare e distinguere le tipologie attraverso le quali il sistema cognitivo codifica e decodifica le variabili informative (e si possano rapportare tali risultati ad altre funzioni del sistema cognitivo), proprio studiando le prime forme di espressione dell’attività di protocodifica e le successive modalità di sviluppo, in relazione a criteri di educabilità.
Così, se si intende per educabilità il processo della formazione nell’epigenesi[4], il gradiente di educabilità dell’attività protocognitiva di un soggetto si potrebbe calcolare in relazione allo sviluppo dinamico e interattivo dei seguenti fattori:
alla misura potenziale della qualità cognitiva (le possibilità di espressione delle qualità cognitive individuali correlate al programma genetico generativo e al consolidamento epigenetico nei primi anni di vita);
al controllo funzionale delle risorse intellettive (il C.R.I. è una funzione di metacontrollo individuale che regola l’adattamento del sistema cognitivo alle esperienze di apprendimento);
alle esperienze di apprendimento (che regolano e specificano l’interazione adattiva dell’individuo nei diversi ambienti e contesti).
Nel mettere a fuoco i processi dell’educabilità emerge, quindi, un quadro di relazione tra individuo, storia personale, consolidamento e trasformazione delle esperienze, interazione sinergica con gli ambienti di apprendimento. Emerge, in particolare, in questo studio, una considerazione della memoria, e della protomemoria, multicomposita e plurifunzionale; modulata da più nuclei di attività, differente tra gli individui, in senso qualitativo ed evolutivo, dinamica e soggetta a “rimaneggiamenti”, composta in e scomponibile da una pluralità di punti vista (cognitivo, emotivo, corporeo, percettivo, … ).
In conclusione, emerge una considerazione della memoria di grande interesse per la formazione, perché – se può essere ipotizzata una possibile relazione tra le modalità con le quali le informazioni vengono organizzate in un sistema adattivo e le modalità con le quali tali informazioni vengono recuperate – uno studio sui modi attraverso i quali si conservano, si lavorano, si trasformano le variabili informative può rappresentare una significativa chiave interpretativa per la comprensione dei processi di sviluppo delle funzionalità elaborative dei sistemi adattivi e, più in generale, delle sinergie che i sistemi adattivi instaurano con gli ambienti nei quali interagiscono e insieme ai quali si definiscono organismi in sviluppo.
[1] Le teorie computazionali dell’Human Information Processing (HIP) definiscono una serie di stadi elaborativi che vanno dalla decodifica dell’input all’immagazzinamento in memoria e alle modalità di recupero-richiamo delle informazioni per l’elaborazione degli output di risposta. Questo tipo di architettura cognitiva comprende un esecutivo centrale che controlla il flusso delle informazioni, uno o più magazzini di memoria, dispositivi sensoriali e periferiche di uscita. I primi modelli, come quello di Broadbent, ad esempio, elaborato nel 1958 in Perception and Communication, appartengono alla classe delle teorie modali dell’elaborazione delle informazioni, cioè le teorie che distinguono tra memoria a breve termine e memoria a lungo termine, di cui il successivo modello di Atkinson e Shiffrin del 1968 costituisce un esempio molto significativo. Questo modello assume che l’informazione sia dapprima elaborata in parallelo da diversi magazzini sensoriali. Questi poi inviano le informazioni ad un magazzino a breve termine (MaBT), a capacità limitata, che a sua volta comunica con un magazzino a lungo termine (MaLT). Oltre a immagazzinare informazioni, Atkinson e Shiffrin ritengono che il MaBT – che gioca un ruolo cruciale, perché senza di esso l’informazione non può raggiungere né lasciare il MaLT – svolga funzioni di controllo come la reiterazione. La reiterazione è un processo di controllo attraverso cui l’informazione viene mantenuta nel magazzino a breve termine e, quanto più lunga è la permanenza di uno stimolo nel MaBT, maggiore è la probabilità che esso venga trasferito o copiato nel MaLT: di qui la correlazione tra il numero delle ripetizioni e le probabilità di rievocazione di una informazione appresa. Tuttavia, intorno agli anni settanta, le teorie modali dell’informazione furono superate da teorie più complesse, come la teoria dei livelli di elaborazione di Craik e Lockhart del 1972 e le teorie sulla memoria di lavoro (working memory). Con queste teorie si entra nell’ambito della metodologia dei sistemi di produzione, su cui si basa la generazione attuale dei sistemi esperti, la cui prima elaborazione si deve a Newell, Simon and Shaw nel 1958.